Di Giovanni Bogani

VENEZIA - Giorno strano, a Venezia. Si parla di carceri, di ergastoli, di stragi fatte dai partigiani. C’è un film, Porzus, che racconta una storia atroce, un’alba di guerra civile in Italia, una Resistenza dove partigiani uccisero altri partigiani. Una storia brutta, che - dopo le polemiche dei giorni scorsi - ne solleva altre. E c’è un film, Piccoli ergastoli, che va ad esplorare nel carcere di Rebibbia le vite di chi, nel carcere, c’è nato o ci dovrà morire. E fra questi, c’è anche Giusva Fioravanti, che una volta, fine anni ’60, era un ragazzino dai capelli rossi che faceva sceneggiati tv, con una faccia innocente. E che pochi anni dopo, negli anni ’70 delle P38, era un terrorista nero. Accusato, e per il momento condannato, per la strage più terribile della storia recente d’Italia: quella bomba alla stazione di Bologna, 2 agosto 1980. Su questi due film, esplodono le polemiche. Mentre a Venezia arrivano altri divi, da Emma Thompson a Vincent Lindon, da Anna Maria Tatò, che ha presentato la versione lunga del suo amoroso ritratto di Marcello Mastroianni, a undici ragazzi che divi non sono: sono i protagonisti di Tano da morire, il film di Roberta Torre che si propone come il primo musical sulla mafia. Questi undici protagonisti, che arrivano oggi, non sono attori: c’è chi fa il salumiere, chi il fornaio. E c’è anche chi non potrà venire, perché nel frattempo è finito in carcere. Accade anche questo. E che il festival, in questo strano giorno, sia meno cinema e più vita - con il suo corrispettivo negativo, la morte - lo si è sentito molto. Forse è un gioco di coincidenze, forse no. Ma certi film sembrano trasudare sangue, e veleni vecchi e nuovi, e respiri di esseri umani. Sembrano finestre sulla vita, più che sulle immagini. E nascono i “casi”. Il più grosso è quello che ha investito, ancor prima della proiezione, il film “Porzus” di Renzo Martinelli. “Porzus” racconta una storia tremenda. In breve, l’eccidio di partigiani compiuto da altri partigiani. Le vittime facevano parte della brigata Osoppo: erano partigiani “bianchi”, non legati al credo comunista; furono uccisi, barbaramente, da altri partigiani. E fra le vittime c’erano il fratello di Pier Paolo Pasolini, e lo zio di Francesco De Gregori. Adesso che il film sta per essere proiettato, Mario Toffanin, condannato come responsabile di quell’eccidio, rifugiatosi prima in Cecoslovacchia e poi in Jugoslavia, da Skopje, dove vive ora, tuona: “Darò incarico ai miei legali di proporre tutte le iniziative possibili per ristabilire la verità sui fatti”. Parla di “diffamazione gravissima” perpetrata ai suoi danni. Toffanin, a suo tempo, disse di aver obbedito alla federazione del Pci, e si salvò dalla fucilazione. Ma allora? Chi ha ragione? Fu un eccidio atroce, o il film esaspera i toni? Siamo andati a raggiungere il generale Aldo Bricco, unico sopravvissuto fra le vittime del massacro. Bricco vive a Pinerolo, oggi; all’epoca, faceva parte della brigata Osoppo, col nome di battaglia di “Storno”. Appena raggiunto al telefono, è un fiume di parole: “Quel Toffanin chiede i danni? E’ un’ignominia, un’infamia! Si dimostrò una belva assetata di sangue, un uomo feroce! Certo, c’era qualcuno in alto loco che volle questa strage. Ma lui la attuò: e tutte le volte che ci penso, inorridisco ancora. I nostri capi sono stati seviziati e torturati prima di essere uccisi. Toffanin, se c’è una giustizia divina, dovrebbe essere... e da non so quanti anni. E invece campa ancora! Quando noi vedemmo quegli uomini, non potevamo neppure immaginare che fossero partigiani come noi. E poi, successe quel che successe”. Ovvero, alcuni partigiani uccisi, e seppelliti a testa in giù e con i piedi in aria. E la polemica divampa, ancora prima che il film sia proiettato. E’ divampata, invece, subito dopo la proiezione, quella attorno al film “Piccoli ergastoli” di Francesca D’Aloja e Pablo Echaurren, firmato anche da Valerio Fioravanti. Che è attualmente nel carcere di Rebibbia, accusato - fra le altre cose - di essere responsabile della strage di Bologna dell’agosto 1980. Il film verrà proiettato in televisione, su Raidue, il 4 settembre alle 20,50. Dunque, non è solo una “cosa da festival”, ma qualcosa che toccherà tutti gli italiani dotati di televisore. E cosa c’è nel film? C’è la vita quotidiana, i sogni, le speranze, i dolori di alcuni detenuti. E fra i detenuti, c’è Valerio Fioravanti. Proprio su questo punto, la polemica si è accesa. In sala c’era una donna, che fa parte della direzione dell’associazione “2 agosto”, che raccoglie i parenti delle vittime di quel tremendo colpo alla fiducia nella vita, per tutti gli italiani. “Perché avete messo Fioravanti? Se questo film è la storia di tanti piccoli delinquenti, perché lui? Lui non ha fatto tanti piccoli errori, ma al momento, e fino a prova contraria, è responsabile di una strage terribile. Perché lasciarlo filosofeggiare davanti alla telecamera?”. Francesca D’Aloja ribatte: “e’ un detenuto come gli altri. Solo, è più famoso. Ma anche gli altri hanno commesso delitti anche gravissimi. La sua è la voce di un detenuto intelligente”. E la signora del “2 agosto”: “Non dimentichiamoci che Fioravanti è stato condannato per 85 morti, che non possono fare adesso nessun film”. E ha continuato: “Ora che si parla di indulto, e di depenalizzazione, questa sembra una manovra usata sfruttando il denaro pubblico della Rai per favorire, con Fioravanti e con gli altri, la linea morbida. Ripeto, se non avesse avuto Fioravanti come filosofo, sarebbe diventato un gran bel film”. E, visto che gli autori si definiscono di sinistra, e Fioravanti era fascista, il film sembra quasi un caso “Larry Flynt”: autori democratici che, per giocare fino in fondo il gioco della democrazia, difendono anche il diritto a parlare, e a filosofeggiare, di un personaggio indifendibile.

[da La Nazione del 30 agosto 1997]


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